Appare chiaro fin dalla prima traccia di questo album, Fort Knox, che Noel Gallagher deve essersi in qualche modo svegliato, e anche violentemente. Fort Knox infatti ricorda subito quell’intro che era Fuckin’ in the Bushes, di quel grande album che fu Standing on the Shoulder of Giants (2000). Dopo un album piuttosto debole, che ci aveva costretti un pò ad accontentarci (Chasing Yesterdays, 2015), qui Noel rimette finalmente insieme i pezzi. Abbiamo un autore in splendida forma, quasi ringiovanito, che non ha paura di proporre pezzi decisi e forti. Se da una parte si rivisita la tradizione musicale inglese (e come potrebbe essere altrimenti), dall’altra vengono finalmente accolte le possibilità offerte dalla computer music (con le pinze naturalmente). Allora ecco un instant classic come Holy Mountain, che suona come un pezzo di The Vaccines. Ma anche It’s a Beautiful World, che potrebbe tranquillamente essere una canzone di un gruppo indie rock esordiente. In She Taught Me How to Fly ritroviamo un sound rock and roll/new wave che ci richiama le sonorità di The Cars. Be Careful What You Wish For è invece un blues semi-acustico che potrebbe stare in un album dei Fleetwood Mac dei tempi d’oro, diciamo pure in Rumours (1977). E poi: la decisa e precisa Keep On Reaching, un rock pieno e coinvolgente; Black & White Sunshine, che suona un pò come un pezzo degli Smiths; The Man Who Built the Moon, un pezzo bello pesante che rimanda ancora a certa new wave anni ’80, forse ai Cure. Si impone a questo punto il confronto con l’album del fratello minore di Noel, che pure, molto ben riuscito, ha incontrato molti consensi. Benissimo. La differenza è che qui, come sempre, le canzoni sono state scritte tutte da Noel, mentre Liam ha dovuto affidarsi a numerosi collaboratori e professionisti. E nel frattempo Liam seguita ogni giorno a lanciare infamie sul fratello, dimostrando palesemente la propria patetica invidia, artistica e personale. Non sappiamo se il gatto di Noel sia più rock dei Radiohead, ma possiamo certamente dire che Noel è ben più rock di Liam. In formazione, Noel non ha problemi ad affidarsi a due vecchi amici come Gem Archer e Chris Sharrock, ex-Oasis, assenti negli album precedenti. Pure, Noel non si fa mancare la collaborazione di due giganti della musica inglese: Johnny Marr e Paul Weller. Who Built the Moon? è insomma un album fantasioso, colorato, variegato e competente. Forse non, come hanno detto alcuni, il suo migliore da Morning Glory. Ma forse, sì, il suo migliore da solista finora, nonchè uno dei migliori di quest’anno 2017 già così pieno.
Scasso 04/12/2017
I Drums Organs Vibes Ensamble sono l'ennesimo progetto Jazz del nostro hammondista Mod preferito: Giulio Campagnolo. Ci propone in questo disco un trio che, con l'aggiunta in alcuni pezzi anche di un sax tenore, produce un groove jazz che ci riporta indietro ai primi anni 60, direttamente dentro ai fumosi scantinati del centro di New York, convertiti nei Jazz Clubs dove artisti del calibro di: Jimmy Smith, Jimmy Mac Griff, Lou Donaldson o Big John Patton si esibivano ed a volte creavano i nuovi pezzi che avrebbero poi inciso per le etichette discografiche quali Blue Note o Verve. Si hanno qui nel più classico stile jazz 7 pezzi di organ & vibes groove, dove la metrica isterica di questo suono dirige l'ascoltatore verso i più alti livelli di musica per che a mio modesto parere, si siano mai raggiunti. Insomma non vi è suono più cool o Mod di questo, per cui non mi resta che invitarvi a sedervi sopra un comodo sofà con un bicchiere di buon vino, rilassarvi ed augurarvi un buon ascolto!!
Scasso 29/11/2017
Questo combo di 4 elementi provenienti da Monaco di Baviera ci propone un suono che sembra essere uscito direttamente dai primi anni '80. E' un disco tutto di Modrock '79 (o powerpop come si descriverebbe adesso) di stampo tipicamente britannico, molto retro ed accattivante, ma si sa i nostri 4 baldi giovani non sono più tanto di primo pelo e quindi nel loro bagaglio musicale hanno voluto trasferire su vinile, tutta la grinta e l'energia dei suoni che li ha fatti scoprire e di conseguenza entrare nella scena Modernista tedesca degli anni 80. Sono riffs musicali simili a Mod bands quali: Beggars, Circles, Small Hours, Small World e Cigarettes e quindi con una metrica ben delineata potente e diretta. Sono 12 canzoni che ci riportano di colpo a quello che fu il primo revival Mod nato nel 1979 e ne rappresentano appieno l'energia e il sapore di riscoperta del modernismo che quei tempi riporta in auge e che si protraggono fino ai giorni nostri. Beh non mi resta che augurarvi buon ascolto e lunga vita agli Smart Patrol!!!
Scasso 27/11/2017
Che soltanto la metà dei brani di questo debut portino la sua sola firma e che questi non siano né il singolo traino né l’episodio più peculiare in scaletta (Chinatown, firmata dai soli Wyatt e Tighe), già potrebbe chiudere il discorso. Ma va senz’altro detto di più. Wall Of Glass, il lead single che più convincerà i vecchi come i nuovi fan dell’uomo, presenta ben quattro firme in co-writing accanto alla sua: c’è lo stesso produttore di tre dei brani sul piatto Greg Kurstin (in curriculum Sia, Beck, Adele Pink e soprattutto, per fare i paralleli, l’ultimo Foo Fighters), c’è Andrew Wyatt dei Miike Snow (che dà una grossa mano anche in altre tracce), c’è il suo amico e compagno di band negli A.M. Michael Tighe che si è fatto le ossa con Jeff Buckley nei 90s scrivendo assieme al compianto un pezzo dell’iconico Grace, ed infine c’è tale Andrew Sidney Fox che accreditato in scrittura ha soltanto questo brano. E non indaghiamo oltre. Come minimo doveva saltar fuori un singolo radiofonico a prova di bomba (più che bomba e basta) e così è: attacco boogie tintinnante di chitarre come inciso sulle origini dell’uomo, bridge zuccheroso FM friendly che si frappone a folate di chitarre ad accesso controllato, il tutto infiocchettato da una produzione elettronica, a partire dal trattamento sulla batteria, riscaldata da coriste soul e da una armonica a bocca. Che dire. Non male, davvero, ma ammirato il prodotto, e il suo piazzamento, difficile che ce ne ricorderemo anche solo a fine anno. A fugare i dubbi sull’urgenza e la necessità di un disco fatto e pensato in questo modo, pensa il resto della scaletta, in particolare negli episodi dove in produzione troviamo Daniel James Grech-Marguerat, uno che ha un nome lungo un treno e che dalla sua può vantare un tocco che si estende solitamente oltre al gioco di manopole e bancone. Formalmente il disco è naturale che sia un Hell Yes! per i tipi dell’NME di turno e, solo per la sua durata di quasi un’ora, è già di per sé un risultato per il vecchio dad rocker. Il canzoniere gira e si ascolta bene grazie alla varietà di soluzioni messe in campo tra ricordi/citazioni di strofe (ancora?) Lennon-Beatles (vedi una For What It’s Worth con rinforzo di archi) e roba più rockista di stampo ’60 e ’70, simpatici boogie riempitivo con altrettanto calcolata lingua in bocca di strofe e versi che hanno fatto la storia del rock (You Better Run), oppure roba shoegazey – stile effettistica primo disco Oasis. Si sa, il rock può essere una formula tanto quanto quella che sta dietro alla Coca Cola Zero, in altre parole, i primi Oasis erano la Coca, As You Were – pffff – lo zucchero a velo, e tutto ciò non ha nulla a che spartire con l’urgenza e le motivazioni che stanno dietro al fare un disco solista che si rispetti, ovvero qualcosa che anche (e forse soprattutto) nei suoi difetti e nel saper prendersi dei rischi, rimanga impresso, ti ci faccia affezionare, non soltanto per il ricordo di una voce e di un sound che vengono prima e a quel prima rimandano in continuazione. Liam ha senz’altro abiti nuovi, ma nulla da dire, non ha un testo suo che paia sincero da comunicarci, e le strofe che gli sentiamo pronunciare sono spesso di una banalità sconcertante: Chinatown, il brano con il testo meno formulaico tra quelli proposti, non porta (per decenza?) la sua firma ma parla velatamente di Brexit nella maniera più Tommaso Paradiso che si possa concepire: «Well the cops are taking over / While everyone’s in yoga / ‘Cause happiness is still a warm gun / What’s it to be free man? / What’s a European? / Me I just believe in the Sun». Emblematicamente e neppure troppo paradossalmente è quello che più rimane in testa dell’album. Complessivamente il più umano. Complessivamente, With a big help from his friends, Liam porta a casa il suo 6 politico.
Scasso 17/10/2017
Stubborn Sons è il secondo e nuovo album dei New Street Adventure, quintetto britannico con base a Londra che si muove tra le mille sfaccettature e direzioni possibili che partono dal soul e dall’R&B, seguito di No Hard Feelings del 2013. Il disco è stato registrato in soli sette giorni negli studi Essex, dopo un anno di concerti tutti sold out conclusisi a Londra allo Jazz Café dove la band ha presentato molto del materiale di quest’ultimo nuovo disco. L’album vuole raccontare, secondo il gruppo, i tempi turbolenti di oggi: il primo divertente e dinamicissimo pezzo, What’s So Good About Happiness, per il chitarrista e vocalist Nick Corbin cerca di spiegare come mai “nessuno riesce a raggiungere la felicità: perché c’è sempre qualcosa di cui lamentarsi”. Come esordio per un album che mescola r&b, funky e un pizzico di groove, ammiccando a quella band di nicchia ormai semidimenticata che furono i Curiosity Killed the Cat, non è male. Tutto il disco scivola su queste melodie intriganti e sui riff di chitarra fuzz, con tematiche politiche mescolate (un po’ superficialmente, va detto) a una buona dose di humour, tanto che man mano che scorre il disco il richiamo alla band anni ’80 come Style Council e altri successi noti diventa impossibile da non fare. Il difetto del disco, piacevole e immediatamente divertente, è semmai quello di non aggiungere nulla al già sentito, e di essere piuttosto monocorde nei ritmi e nei riff ammiccanti di chitarra, tnato che fino alla sterzata acustica di Can’t we just be friends sembra un po’ di sentire sempre la stessa canzone, il che è però più un difetto del genere che non dei New Street in sé a dir la verità. Why Should We Do Anything, Something More than This, One & The Same, anche se sono i migliori pezzi del disco, e anche se cercano di parlare di cose importanti, non aggiungono nulla a quello che già ti attrae al primo pezzo, per cui bisognerà attendere al prossimo disco qualcosa che riesca, pur nell’ambito dello stile ormai inaugurato e solido, a fare da variazione e da piacevole sorpresa sonora.
Scasso 14/09/2017
Hanno avuto bisogno di un album interlocutorio gli irlandesi The Strypes per raggiungere quella piena maturità artistica che si intravedeva chiaramente nel sound dei primi anni ’10, ma a cui mancava ancora quel quid per fare il definitivo salto di qualità. Dopo l’esordio ruggente tra 2012 e 2013 di un paio di EP a base di blues, punk e rock’n’roll e del primo full-lenght “Snapshot” (2013), il successivo “Little Victories” (2015) era sembrato ai più un passo indietro, il prematuro canto del cigno di una band destinata a essere una meteora. Eppure i quattro giovani di Cavan hanno dimostrato di saper venire fuori alla grande dal corto circuito e, una volta superato l’ostacolo del secondo album, nel 2017 sono tornati con “Spitting Image”, lavoro decisamente più convincente del precedente e che con ogni probabilità traccia l’identikit definitivo del sound e dello stile della band. Gli Strypes virano dal grezzo blues-rock su sonorità più legate al mod revival degli anni ’70-’80, proponendo un genuino incontro tra ritmiche urgenti, minimalismo nella scelta dei suoni mutuata da padri fondatori del rock’n’roll quali Bo Diddley (Oh Cruel World) e Chuck Berry (I Need a Break from Holidays) ed elementi tipicamente beat ’60: tappeti di hammond (Easy Riding,brano che ad un primo ascolto sembrerebbe dei Chords) e interventi di armonica (Garden of Eden, A Different Kind of Tension, Oh Cruel World). Fin dalle prime due tracce, Behind Closed Doors e Consequence, appare netto il riferimento artistico a una band icona del revivalismo mod come i Secret Affair (straordinaria la somiglianza tra la voce di Ross Farrelly e quella di Ian Page, fino a sfiorarne l’imitazione): volumi sparati, batteria martellante, riff di chitarra acidi e nervosi e un’attitudine generale che strizza l’occhio al punk e al pub rock britannici (Elvis Costello, Eddie & The Hot Rods) made in '70, e che tenta (con successo) di trasferire su disco l’impeto live per cui gli Strypes sono diventati celebri nelle isole britanniche, a dispetto della giovanissima età (i quattro componenti sono nati tra il ’95 e il ’97). Una miscela intelligente e gustosa che è la vera protagonista del disco (Get It Over Quickly, Turning My Back), che con grande “furbizia” sa anche scendere di intensità nei punti nevralgici in cui gli Strypes piazzano delicate ballate che sguazzano nel vasto mare britpop - in particolare dei Blur dei primi anni ’90 (Grin and Bear It, Black Shades Over Red Eyes, Great Expectations) - fino a toccare l’universo acustico country con la penultima Mama Give Me Order.Spitting Image dunque è non solo motivo di riscatto per una band troppo frettolosamente bollata come “immatura”, ma soprattutto sposta qualche centimetro più in su l’asticella che gli stessi Strypes avevano innalzato portando nel 21° secolo sonorità e stili provenienti da un passato culturale-musicale che il mainstream contemporaneo sta provando con tutte le sue forze a confinare in soffitta. L’ultima sfida per il giovane quartetto irlandese sarà non prestare ascolto alle critiche di chi in patria vorrebbe che si adeguassero ai tempi, senza probabilmente aver compreso l’urgenza che muove la band a farsi portavoce di sottoculture ‘uniche’ e resistenti alle mode.
Scasso 19/07/2017
Solo Paul Weller poteva celebrare un anniversario con uno dei suoi dischi migliori. L’uomo che ha identificato l’estetica Mod non solo nello stile e nell’immagine (sempre impeccabile anche a 59 anni), ma anche nel pensiero musicale interpretando in modo coerente la filosofia “moving and learning” si ritrova nel 2017 con la ricorrenza importante dei 40 anni dell’album che lo ha lanciato almeno due incarnazioni fa, In the City dei The Jam (uscito nel maggio del 1977) e una consolidata carriera da solista molto poco propenso all’autocelebrazione, come ha dimostrato nel 2015 con l’album quasi prog-rock Saturns Pattern. Quindi cosa ha fatto? Un album che è una raccolta di classici moderni e suona come il nuovo manifesto di una sottocultura inesorabilmente devota alla reinvenzione di se stessa. La “rivoluzione gentile” di cui parla Weller nel titolo di questo suo 13esimo album solista (ma contandoli tutti sono 25, quasi uno ogni due anni) è semplicemente il ritorno della qualità di scrittura ed esecuzione di tutti i generi musicali che hanno creato il nostro immaginario: rock, R&B, soul, funk, folk. Tutto fatto in modo naturale, semplice, ma non inconsapevole, senza mai girarsi indietro a riguardare il proprio passato e con l’aggiunta (oltre allo spettacolare duo batteria-tastiera che lo accompagna da anni) di una serie di ospiti sparsi nell’album, come richiami invisibili a influenze che risalgono a decenni diversi, dalle voci soul Madeline Bell e PP Arnold a Boy George, che canta in One Tear fino a Robert Wyatt che suona la tromba in She Moves with the Fair. E poi c’è lui, con le sue ballad struggenti (Long Long Road), la chitarra blues di Satellite Kid, il funky di New York, quell’atteggiamento che non ammette repliche e il suo essere un punto di incontro immaginario tra David Bowie, Eric Clapton e Noel Gallagher. La classe di Paul Weller è un regalo alla musica di oggi e il suo modo di rendere attuale il pensiero Mod è la migliore idea di futuro che si possa immaginare per il rock.
Scasso 26/06/2017
Complementare al libro: "Sawdust Caesars: Original Voices Mod", ecco un nuovo e fresco insight sulla storia del Modernismo Con un tema fondamentale dell'influenza distinta sul movimento e documentando una moltitudine di aree correlate, questo è uno studio accattivante e convincente del più rilevante e influente fenomeno giovanile dall'alba della cultura popolare. Elegante, preciso, intensamente ricercato e veloce, diverso e visivo come oggetto stesso, "Mojo Talkin" è la voce autentica del Modernismo che si evolve nei decenni. Questo pesante documento di grandi dimensioni di 514 pagine, cronizza le varie influenze eclettiche relative alla nostra subcultura. Con grandi sezioni sulle ispirazioni del primo Modernismo e le sue influenze, la creatività delle Mod Girls, raccolta di documenti e lo stile del movimento accanto all'importanza del DJing, dell'arte, dei musicisti, della letteratura e di più ... 'Mojo Talkin' è destinato ad esplorare e ampliare l'intera mappa dei temi correlati al Modernismo. Un libro FONDAMENTALE!!!!
Scasso 21/06/2017
Oltre ad una raccolta di brani rari e non pubblicati dell'era d'oro dei 60's; "Le Beat Bespoke" è un festival internazionale 60's e Mod che si svolge ogni Pasqua a Londra. Questo è il volume sette di questa serie popolare e come i suoi predecessori LBB7 viene ripristinato e masterizzato secondo lo standard più alto. Le selezioni sono sequenziate in rapida evoluzione modello "dj set" con hit per dancefloor, nuove scoperte, gemme inedite e un esclusivo re-mix da parte del nostro amto dj: Dr Robert (Bailey). Le canzoni in questa collezione sono oscuri titoli di 60's club ignorati al tempo in cui vennero registrati ed immessi sul mercato sotto forma di 45 giri, ma venerati dai djs, i ballerini ed i collezionisti di oggi. Il dottor Robert prova prima questi dischi all'interno del suo club di Londra; il Mousetrap, dove la gente "cool and cold" si riunisce per queste notti di divertimento o hipshakin, una volta che il pezzo ha superato il test del Mousetrap, lui inizia a spingerli sulle sue compilations chiamate Le Beat Bespokè. Alcune di queste canzoni le ha messe su questo album per il tuo piacere di danza, ascolto e festa!
Scasso 17/05/2017
Ragazzi vi informiamo con un bel ritardo di 2 anni su questa uscita che ci è sfuggita, ma che comunque vale la pena di recensirvi!! Che fosse difficile dare un seguito a “Cabinet Of Curiosities” era prevedibile per chi aveva avuto la fortuna d’incrociarne l’ascolto: lo stesso Jacco Gardner sembrava convinto dell’unicità di quell’avventura, e forse non nutriva neppure una speranza di dargli seguito. Sarà stata questa la ragione che lo ha spinto a condensare in quei 40 minuti di musica tutte le sue ambizioni creative. Con ”Hypnophobia”, Jacco si lascia andare alla spensieratezza e alla voglia di divertirsi, rimandando il test di maturità alla prossima stagione. Meno ambizioso e più naif, il secondo album del musicista olandese non ripropone la stessa quantità di colori e sfumature del predecessore, pur omaggiando ancora una volta la psichedelia beat dei primi anni Sessanta ma tenendo fuori le evoluzioni-involuzioni del progressive-rock. Se ai Foxygen piace indugiare ancora in cervellotiche associazioni di psichedelia e cantautorato pop, Jacco Gardner continua a preferire il versante più sciocco con canzoncine come “Face To Face” che sembrano spuntare da oscuri album dei sixties licenziati come inutili e superflui, e che oggi dopo 50 anni ci affanniamo a recuperare come esemplari capolavori d’innocenza e deliquio sonoro, la stessa beata leggerezza che fa di “Find Yourself” un instant-classic. Non nego che “Hypnophobia” suoni in parte come un passo indietro per Gardner, gli otto minuti di “Before The Dawn” sono i più entusiasmanti e anche i più controversi dell’album, e tracce come “Make Me See” sono superflue. D’altro canto “Grey Lanes” si candida come il brano più amabile della sua carriera e “All Over” ripropone la splendida alchimia di toni e colori dell’esordio. Album di transizione, “Hypnophobia” cerca di rinnovare la prospettiva sonora del musicista con una produzione che evidenzia già dalle prime note di “Another You” il tono più disincantato del progetto, e basta comunque un brano come ”Brightly” per giustificare la nuova direzione sonora di Gardner, musicista dà prova di una sempre maggior confidenza con il songwriting, promettendo per il futuro una buona dose di emozioni.
Scasso 20/04/2017
Ho ancora presente il periodo degli ascolti smodati di "Sun Structures", un lavoro che univa l'arcaico del rock al presunto decadentismo dell'indie più eclettico del Regno Unito. Un disco più spigoloso dell'ultima uscita, "Volcano", ma al contempo più barocco e grigio rispetto al contesto cartoonesco e colorato di quest'ultimo. La sensazione è che il songwriting cerchi di rifarsi al pop d'autore britannico storico (Kinks, Beatles, Pretty Things, Hollies) ma che per eccesso di ricercatezza perda qualcosa in termini di spontaneità, laddove invece i brani di "Sun Structures" mostravano un'immediatezza che custodiva la fortuna della band. "Volcano", di contro, lo spettro sonoro lo riempie anche troppo. Così facendo, la proposta si è un po' annacquata, perdendo in forza evocativa. Si nota una decisa sterzata sintetica, con una drastica riduzione delle chitarre a favore di tastiere e synth. Questo scambio tra elementi principali si è risolto in un disco cervellotico, sovrabbondante, ma non per questo privo di pregiati spunti pop. "Certainty" è il biglietto da visita: il basso pulsante è l'elemento che assieme alle trionfali tastiere avvolge questo brano dal sapore 60's ma al contempo capace di strizzare l'occhio allo psiychpop in voga qualche anno fa. "(I Want To Be Your) Mirror" è un brano di progressive romantico che sembra provenire da un'epoca lontana, quella in cui l'orchestra fantasma del Mellotron accarezzava profonde e lussureggianti melodie. Sembra essere proprio questa la veste in cui il quartetto ha la massima resa. Prog che fa capolino anche nel tema portante di "Mystery Of Pop", più in generale debitrice anche del glam-rock degli Sparks. "Roman Godlike Man" sorprende per una commistione tra una melodia meravigliosamente Kinks-iana e un ostinato di basso che lambisce la new wave, con una marzialità e un'interpretazione memore del post-punk inglese. Il secondo singolo "Strange Or Be Forgotten" è il brano più arioso, ma non decolla, forse a causa della timida interpretazione vocale, che non regge l'atmosfera epica. Si avverte una certa stanchezza, paradossalmente proprio laddove la ricerca armonica si fa più irregolare. "All Join In" ha dei buoni spunti, rievoca i fasti del synth-pop classico, ma non si fa ricordare come potrebbe, a causa di una scrittura sì ricercata, ma troppo leziosa. L'impressione è che i Temples cerchino a tratti di avvicinarsi alla neo-psichedelia di band come Tame Impala e MGMT, conservando intatta però l'indole artigianale del pop d'oltremanica. Ad ogni modo, sebbene la visionarietà di "Sun Structures" non trovi qui una replica sempre brillante, "Volcano" dimostra una fantasia d'arrangiamento infrequente nel pop alternativo dei giorni nostri.
Scasso 18/04/2017
Da progetto del Lleidiano Pau Llop, nasce l'alter ego che è L'Home Lllop, sono 12 classici di ska jamaicano come :"Jamika Ska", "Brown eyed girl" o "If i had a hammer", cantati in catalano che: se per la prima canzone il titolo rimane invariato, per le altre due si trasformano rispettivamente in: "Ulls de color mel" e "El martell". Il disegno grafico della copertina è stato pensato e progettato da un nome a noi conosciuto che è il desiner grafico nonchè famoso dj del Boiler club di Barcelona, Jordi Durò che con il suo studio di progettazione (www.durostudio.com) ha creato questa bellissima copertina retro assieme alla fotografia di Joan Cantò (www.joancanto.com) che con la sua macchina fotografica ci regala istanti di pillole 60's da paura. Prima di questo LP sono usciti due 45 giri sempre con la stessa grafica 60's accattivante e la banda ha partecipato a numerosi festival regionali. Insomma proprio una bella uscita discografica di un suono immortale cantato in una lingua locale.
Scasso 05/04/2017
E 'stato nel 2010, quando la comparsa di CLUB 45, quel magico libro di sensazioni pop rallegrò l'esistenza di mods e jetsetters di tutta la Spagna, ed ha segnato l'inizio della impresa editoriale Chelsea. Il suo autore, Alex Cooper, ha atteso più di sei anni prima di pubblicare il suo sequel, sperando di fare scomparire il mito che i sequel non sono mai stati buoni. Club 45 Again è un'altra collezione emozionante di instant che colpisce a 45 giri al minuto, novanta canzoni dell'Era Pop che delizieranno mods, beatnik, collezionisti e gli appassionati di musica e stile. Con la passione da "absolute begginer" e la competenza da bibliotecario, Alex ha monitorato i suoi imponenti cimeli originali d'archivio per scegliere tra centinaia di immagini dimenticate, nascoste nelle riviste pop dei cinque continenti, spartiti, cartoline e foto promozionali, fogli e cartelle stampa, carte delle registrazioni e delle edizioni di tutto il mondo. Questo catalogo in technicolor è accompagnato da un testo che, lungi dall'essere esaustivo, sta cercando di catturare l'attenzione del lettore sulla base di aneddoti e avventure che fino ad ora sono rimaste conservate in vecchie pubblicazioni cartacee o nella memoria dei suoi protagonisti. CLUB 45 ritrae di nuovo la vita e l'opera del beat, i veri protagonisti che sono i musicisti della galassia degli anni Sessanta, ma che sulle loro pagine ci sono un sacco di storie di produttori, presentatori televisivi, radio DJ pirata, modelli e fotografi, manager, pubblicitari e segretari di fan clubs. Un viaggio affascinante, con il chilometro zero, situato nel cuore di Soho di Londra: l'uscita da Carnaby Street a visitare prima, i club "in" di tutta l'Inghilterra e il percorso seguito per il pianeta beat, con trasbordo verso destinazioni lontane come l'Australia, il Kenya o Uruguay. Al termine di ogni capitolo si ha la stessa sensazione di quando il vostro singolo preferito è finito, quella fitta di necessità che ti costringe a posizionare l'ago in origine, per ascoltarlo di nuovo. Questo è ciò che si ha con un "riempipista", suoni che sono come dipendenza per il suono beat. Percui: "put on your dancing shoes" e festeggia con Alex Cooper i 30 anni cha ha vissuto nella Era Pop.
Scasso 24/02/2017
La carriera magnifica anche se irregolare di uno dei grupi Mod più grandi nel panorama spagnolo nonchè europeo di marca R'n'B merita un breve ripasso. Si formarono quasi 3 decenni fà a Vitoria Gasteiz, Paesi Baschi e da allora fecero 3 dischi e più di trecento concerti con un suono che andava dal pub rock dei 70's, al boogie blues e rock'n'roll dei 50's. Così come hanno condiviso il palco con artisti e bands del calibro di: Wilko Johnson, Barrence Whitfield, Eli Paperboy Reed, Swamp Dogg, The Blues Brothers Band, Ian Dury, Kenny Neal, Bill Thomas, Lazy Lester o Melvin Davis. Che curriculum!! Si sciolsero nel '98, ma pare che pochi anni dopo gli tornò 'il demone del soul' e reiniziarono a provare assieme condividendo un'altra volta palchi in festival del genere Soul/R'n'B come: Black is Back o il Mojo Working di San Sebastian, ed ora per questa etichetta locale basca: 'Gaztelupeko Hotsak' hanno prodotto nuovamente il frutto della loro passione per i questi suoni in questa 'perla vinilica' di otto tracce con il miglior suono che mai fu ascoltato e prodotto da questa band. Registrato in via analogica ai famosissimi: 'Circo Perotti' di Gijon da un maestro del genere quale può essere solo Jorge Explosion per la qualità dei suoni e degli arrangiamenti ed hanno scelto per la copertina del disco il progetto grafico di un'altro maestro della pop art qual'è José M. Lledó “Mardi” che ha rappresentato attraverso i vari monumenti della loro città natale inframmezzata da animali esotici, mezza dozzina dei migliori artisti di soul/R'n'B che li hanno ispirati. la cosa migliore delle loro otto nuove canzoni è che sono firmati dal loro più bravo compositore che è Iñigo. Il loro lavoro inizia con: "Tell us the truth", dove attraverso dei fiati potenti che cambiano si inframmezzano chitarre paludose blues durante tutto il cantato, poi si passa a: "I'm your slave" dove un potente organo la fa da padrone tipo Dr Feelgood, insomma è un susseguirsi di intrecci tra chitarree blues sporche, hammond groove e fiati soul. Il momento della calma arriva con il pezzo: "I'm gonna miss you" con dei riff che ricordano i Them di Van Morrison, per poi continuare con la strumentale "Midnight boogie" le cui armoniche e chitarre poderose sembrano un misto degli ZZ Top e dei DR Feelgood (ancora); insomma uno dei migliori dischi dell'anno da avere assolutamente.
Scasso 09/02/2017
Sei brani segnano il ritorno, quasi venticinque anni dopo il loro scioglimento, degli Smart Dress, ovvero la mitica Mod band madrileña scioltasi proprio sul più bello, nei primi anni 90, quando i suoni Funk e Jazz portati dalle effimere correnti dell’Acid Jazz ne evolsero il suono. Sei brani che oltre al ritorno sotto forma di supergruppo mod Spagnolo -infatti, a pedro Ramos, chitarrista e leader, si affiancano membri di band di rilievo come i baschi Allnighters (che pure loro tornano dopo 20 anni di silenzio), gli andalusi Refoundations o i valenziani Vibe Creators (da poco riciclati in Up for It)- ne ripassano il percorso musicale. A farla de padrone, la tittle track con tanto di flauto, Hammond ed un perfetto ritmo funkeggiante, seguita da vicino da “El día que a dios le dio por existir”, brano che prende titolo dall’omonimo romanzo di Dani Llabrés, altro celeberrimo modernista Spagnolo. “Diversoul” era il cavallo di battaglia della band nel 1990 e questo, come il resto di brani, rimandano a sonorità Pop Soul accellerate che, per intenderci, e per citare una band coetanea meneghina, potrebbero ricordarci gli Investigators di Mike, Ginetto e Geppo. Un disco autoprodotto che potete richiedere scrivendo a smartdress8@gmail.com
Alberto Valle 08/02/2017
Il disco è un elegantissimo cocktail di r&b, club jazz, soul, surf e boogaloo, in cui l'autore si è concentrato al meglio per rielaborare un personale misto di influenze provenienti dalla musica anni 50' e '60. Dieci sono le tracce di questo terzo album targato Waterhouse, dieci pillole con cui l'artista r&b californiano è tornato a lavorare con il produttore Michael McHugh, leggenda vivente della scena musicale di Orange County, e con grandi musicisti preferiti come Bob Kenmotsu al flauto, Ralph Carney al sassofono e Will Blades all'organo. Nei brani di questo straordinario lavoro dal titolo 'Never Twice' si va a ripercorrere tutta la magia vintage che a colpi di jazz, r&b old school, presenza blues e attitudine surf californiana Nick Waterhouse predilige. L'apertura è vibrante ed è stata affidata ad un brano come 'It's Time' e si è ancora immersi in un'atmosfera d'altri tempi ascoltando ''I Had Some'', come accade anche in ' Straight Love' e nell'elegantissima 'Stanyan Street'. E' quasi rock'n'roll old style in 'Old place', c'è romanticismo in 'Baby i'm in the mood for you' mentre ci si arrende all'incedere da party selvaggio di 'Katchi', fino alla chiusura notturna di 'LA Turnaround' con cui ci troviamo di fronte all'opera della maturità di Nick Waterhouse, questo bellissimo ''Never Twice''. L'originalità è il primo elemento che salta all'attenzione dell'ascoltatore, che oggi sempre meno spesso riesce ad incontrare musicisti così coraggiosi e talentuosi da potersi mettere al livello di artisti e nomi indimenticabili come coloro i quali hanno disegnato e segnato indelebilmente la storia della musica degli anni '50 e degli anni '60 a livello mondiale. Il soul di Nick Waterhouse non a caso sembra esser riconducibile ad un anima puramente intrisa di una passione per il ritmh and blues fuori dal comune e la sua attualizzazione del ritmo diviene così la massima espressione di un incontrollabile voglia di suonare con classe. E in questo disco, Waterhouse ha accompagnato ritmi trascinanti e densi a testi adatti e coincisi, creando un prodotto realmente degno di nota..e di ascolto!
Scasso 07/02/2017