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P.M. Warson - Dig deep repeat - Legere Rec. - LP/CD

PM Warson non è certo uno che si riposa sugli allori. Appena un anno da quando il suo album di debutto True Story è stato rilasciato al mondo, è già tornato, e se pensavi che questo sarebbe stato un knock-off di second'ordine messo insieme frettolosamente per capitalizzare quel successo iniziale, ripensaci, come dimostra Warson ancora una volta che è piuttosto il cantautore. C'è un non originale qui: il classico Holland-Dozier-Holland "Leaving Here", in due parti, prima vicino all'inizio del disco e poi proprio alla fine. Prima di allora, però, "Insider" di Warson apre Dig Deep Repeat con una semplice spavalderia che è a metà strada tra The Black Keys circa Turn Blue e alcuni dei leggendari lavori di John Sebastian. Quelle versioni di "Leaving Here" sono simili a una versione più dolce di The Who, e sicuramente ben lontane dalla versione Motorhead! Detto questo, le cose diventano un po' più alternative a metà dell'album con la vicina title track "Dig Deep" che, dato il suo stile alla chitarra di Dick Dale, non sarebbe fuori luogo in un film di Tarantino, anche se inizia come qualcosa da un Sergio Leone occidentale. È estremamente efficace e molto divertente. La maggior parte di Dig Deep Repeat, tuttavia, è saldamente intrisa di rhythm and blues classico, e la bellezza di questo è che le composizioni sono piuttosto sottovalutate, il che significa brani come "Game Of Chance (By Another Name)" e il sublime "Out Of Mind" (sfumature di "Time Of The Season" di The Zombies qui) rivelano ulteriori strati ad ogni ascolto successivo. È il tipo di atmosfera da club blues fumosa che Madness ha esplorato di tanto in tanto su brani come "Razor Blade Alley" e "Madness Is All In The Mind", specialmente in "Never In Doubt". "Nowhere To Go" è più un bruciatore lento, con le cori femminili che aiutano a elevare la traccia su una sezione ritmica quasi da Santana. Poi l'affascinante "Matter Of Time" ricorda sia Ray Charles che Otis Redding, mentre possiede un supporto che sembra essere un amorevole tributo a "It's A Man's Man's Man's World" di James Brown del 1966. La versione di chiusura di "Leaving Here (Pt. 2)" ci addosso con motivi sax sensuali e sintetizzatori psichedelici, smentendo un comportamento leggermente inquietante. Dig Deep Repeat è semplicemente un grande disco soul e segna PM Warson come un artista "da vedere" per il prossimo futuro.

Scasso  09/11/2022


Durand Jones & The Indications - Private Space - Dead Oceans Rec. - CD/LP

Forte della presenza di due vocalist di rara potenza e classe, ovvero Durand Jones e Aaron Frazer, la band americana prova a consolidare il successo del secondo disco “American Love Call”, nonché il discreto seguito ottenuto dall’album solista di Aaron Frazer, “Introducing…”. “Private Peace” beneficia di un’intelligente messa a fuoco delle ispirazioni, che non profumano di nostalgia ma di autentica adorazione per quel soffio vitale che permise alla black music di attraversare con fierezza la storia della musica moderna, conquistando un ruolo centrale nell’evoluzione sociale e culturale dagli anni 60 ad oggi. L’intuizione geniale dei Durand Jones and The Indications è quella di curare con fare artigianale e quasi maniacale ogni piccolo dettaglio, nello stesso tempo abbracciando con piglio modernista uno spirito lo-fi che permette alla band di preservare un profilo indie, che dona un ulteriore appeal. C’è un’evoluzione temporale che lega “American Love Call” a “Private Peace”: mentre il precedente album restava fermamente ancorato al soul anni 60 e 70, il terzo disco della formazione statunitense sposta l’attenzione verso i primi vagiti della disco-music, tra citazioni del Philly Sound e restauri estetici e strutturali alla Earth Wind & Fire, Isley Brothers, Stylistics e Hot Chocolate. Una scrittura qualitativamente costante e una perfetta sinergia tra interpretazioni e arrangiamenti offrono alla band l’occasione giusta per mettere a segno delle canzoni più incisive e accattivanti, a partire da “Witchoo”, un incalzante soul-disco che si adagia su un groove irresistibile mentre i due vocalist duettano iniettando un lieve brio funky, e passando per l’altro singolo “The Way That I Do” che pesca nella leggerezza degli Stylistics e degli Hot Chocolate, per chiudere poi il cerchio con la lussuosa “I Can See”, che in un tripudio di fiati, archi e fuzz guitar mette in gioco perfino i Parliament e i Funkadelic. In questo tracciato fatto di potenziali highlight da classifica, la band inserisce piccoli gioielli di sintesi soul-funk, come la vellutata “Love Will Work It Out”, l’ambiziosa e psichedelica title track (difficile non pensare ai Temptations), un seducente e zuccherino soul (“Ride Or Die”) e un potenziale classico delle future esibizioni dal vivo (“Reach Out”). L’eccellente performance sulle tipiche orchestrazioni Philly Sound di “More Than Ever”, la sensualità ruffiana e new soul di “Sexy Thang” e il più marcato groove disco-funky di “Sea Of Love” confermano la volontà dei Durand Jones And The Indication di abbracciare in pieno la musica black dei tardi anni Settanta e l’avvento della disco-music, tracciando, attraverso i loro album, un percorso storico/narrativo.

Scasso  30/09/2022


Nick Watherhouse - Promenade Blue - Innovative Leisue -LP/CD

Nick Waterhouse nasce nel 1986, a Santa Ana, California. Nel caso non lo sapeste ancora dopo un decennio che pubblica dischi, ve lo racconta nella penultima traccia del suo quinto album, fin dal titolo. Una canzone che è una dichiarazione d’intenti nei testi, quanto nella musica che rende impossibile non alzarsi a ballare come ai tempi degli “Happy Days”. “Io credo che i dischi dovrebbero trasportarti in un altro mondo” – dice l’artista presentando il disco su Facebook – “Possono proiettare in modo astrale, schiudere memorie, crearne di nuove, persino – come la magia bianca o una curva psichica – creare delle connessioni empatiche nello spazio e nel tempo. Sono come ricordi che hai, o che non hai ancora fatto”. Ascolti un disco di Nick Waterhouse e ti sembra di guardare una serie di cartoline della California e dell’America che furono, quelle che erano prima della sua nascita e ancora prima del trauma della guerra in Vietnam. O almeno quella America che mettevano all’epoca nelle cartoline e poi nei film. Grazie ai quali, un europeo può ascoltare il disco e vedere macchine decappottabili, gonne plissettate, juke-box, drive in, frullati, spiagge e tutte quelle altre cose che noi europei immaginiamo che c’erano solo grazie ai film. O anche, nei tanti passaggi oscuri del disco: club fumosi, alcol legale o di contrabbando, storie d’amore torbide, lusso ostentato e effimero, pistole e sigari. “Promenade Blue” è registrato in mono, come ai tempi, per rafforzare l’effetto “macchina del tempo”. “Cresciuto nell’area di Huntington Beach, nota prevalentemente per le palestre, la cultura del surf e i centri abbronzatura”, insiste il profilo di Waterhouse su Bandcamp. Malgrado la frequentazione di tale ambiente, non è però un surfista abbronzato e palestrato, ma un nerd musicale, nell’aspetto e nella sostanza. Sa tutto del luogo da dove viene, ma non per averlo vissuto, ma per averlo ascoltato e studiato nelle note di copertina dei dischi. Parliamo di uno che ha cominciato la sua carriera musicale come commesso in un negozio di vinili di San Francisco. “Promenade Blue” può essere solamente l’opera, l’ennesima, di qualcuno che abbia una cultura enciclopedica della musica Americana. Prodotto da Paul Butler, specializzato in operazioni simili con Michael Kiwanuka, St. Paul and the Broken Bones, i Teskey Brothers. Rispolvera persino una roba arcaica come il Doo-Wop in Spanish Looks. Frequenta con dimestichezza il jazz, nella strumentale Promene Bleu e non solo. Visita il suono Motown in Vincentine, con i fiati e tutto il resto. Medicine è un blues ritmato e un po’ dark. Very Blue è pop radiofonico che possiamo perfettamente immaginare prodotto da Phil Spector. Fugitive Lover sembra Ray Charles che si atteggia a Tom Waits, o viceversa. Minor Time è swing, a là Cab Calloway. E si chiude con il basico r&b di To Tell che, magari, suonato un po’ più veloce avrebbe potuto essere un successo da discoteca di Donna Summer. E non manca la poesia: “Non piango mai nei giorni freddi / Non mi importa di un viaggio in autostrada / Perché è quello che conosco / Mai pronto per i grandi cambiamenti / Imparo a lasciare andare le cose / E dico soffia, vento, soffia”. Place Names e’ il capolavoro che apre l’opera. Una canzone senza tempo, come suggeriscono i testi, che unisce Otis Redding a Frank Sinatra. Orchestra d’archi e cori su un ritmo jazz sincopato. Questa è musica completamente priva di muscoli. È una musica che prevede molto cervello e molto cuore. Una musica che può fare solo uno che sa le cose e di quelle cose lì ha fatto una ragione di vita. E noi che non le sappiamo tutte quelle cose lì, possiamo comunque lasciarci il cuore in un disco così.

Scasso  02/09/2022


Kula Shaker - 1st Congregational Church of mEternal Love and free Hugs - Strange FOLLP Rec. - Lp/CD

Un album che non tradisce le origini e il percorso fino ad ora fatto, facendo piombare di nuovo tutti i fan in un vortice nostalgico che sa di misticismo, ricerca strumentale, India, Bob Dylan e i Beatles. I Kula Shaker sono una delle band più sottovalutate della storia inglese. Famosi solo per aver prodotto e dato al mondo “Govinda”, il gruppo d’oltremanica ha sfornato pezzi che difficilmente mi scorderò. Non solo, all’attivo hanno ancora cover rivisitate sradicando quelli che erano i canoni prestabiliti all’atto del concepimento stesso, come “Ballad Of A Thin Man” dell’americano Dylan. “1st Congregational Church Of Eternal Love and Free Hugs” è forse il grande contenitore, il grande progetto alla “Sgt. Pepper’s” del complesso capitanato da Crispian Mills. Non solo è alto il livello artistico e di produzione, ma anche il concept che si cela dietro a questo nuovo e sesto lavoro. Le 20 canzoni, da quasi un’ora di durata, sono la grande colonna sonora di una semplice messa che si svolge (questo immaginiamocelo) in un piccolo paesino sperduto della campagna inglese, ancora ancorato alla religione ma desiderosa di un cambiamento forte ed immediato. Per questo la nascita di una nuova chiesa, di una nuova fede, che si rifà non all’amore verso un Dio sconosciuto ma verso semplicemente l’amore e la condivisione con gli altri. Una filosofia che ci riconduce banalmente agli anni Sessanta del XX secolo e che si immette preponderante in ogni singolo brano, dalle ballad più semplici alle canzoni più rock. A darci questa impressione sono gli intermezzi parlati all’interno del brano, nei quali un prete (o un pastore, un predicatore o semplicemente un Manson della situazione) si rifà alla congregazione con una predica sociale, filosofica ed umana. Non mancano i siparietti: in “Let Us Pray” suona un cellulare, nel silenzio della scena tra qualche colpo di tosse e pianto di bambino; in “Raining Buckets”, una voce che potrebbe essere Olivia Colman va contro il predicatore accusato da quest’ultima di non aver abbastanza protetto alcuni bambini indottrinati da un’altra società religiosa. Musicalmente il progetto è magistrale e meno lungo di quanto uno possa aspettarsi guardando la tracklist, a dimostrazione che la band vuole prendersi il suo tempo fisico e metafisico per produrre qualcosa che possa avere un senso ed un valore anche per i posteri. Seppur non ci siano grandi sconvolgimenti strumentali, lo stile è sempre quello diciamocelo, il prodotto finale è di grande apprezzamento e amore. La voce di Mills, dai tratti Dylaneschi, è di un effetto e piacere unico poichè si mischia facilmente con le atmosfere e le influenze che da anni sono tratti caratteristici del gruppo: il rock psichedelico di inizio anni Sessanta e successivamente Settanta, le influenze mistiche e religiose di un’India non del tutto occidentalizzata. Non mi stancherò mai di amarli e di apprezzarli fino in fondo, perché una band come i Kula Shaker andrebbe tenuta stretta a sé e non dovrebbe essere abbandonata mai!

Scasso  31/08/2022


The Redskins - Neither Washington Nor Moscow - Decca REc. - 4LP/4CD Box set

Era allora (e rimane ora) la più grande dichiarazione di intenti che una band abbia mai avuto: capeggiata dal polemista alla moda Chris Dean, la dichiarazione di intenti dei Motown punks, The Redskins, era semplicemente: ‘Cantare come le Supremes e camminare come i Clash’. Da York, non da Detroit, il trio – Dean (chitarra), Nick King (batteria) e Martin Leon (basso) è venuto per la prima volta all’attenzione di Jon Langford dei Mekons in un concerto del 1981 contro il razzismo a Leeds. Conosciuto allora come No Swastikas, Langford ricorda che fecero una buona prima impressione; ‘Skinhead di sinistra, geniali!’. I semi del movimento RAR sono nati dal riconoscimento che la musica poteva unire filamenti disparati di giovani, un potere tardivamente compreso anche dagli estremisti oppositori e spesso violenti dell’estrema destra. Apertamente socialisti e con testi che articolavano quella che vedevano come una società chiusa in una lotta di classe fino alla morte, Dean & co. ben presto si trovarono a combattere non solo i teppisti di strada ma anche, ancora più prevedibilmente, la stessa industria musicale. Alcune di quelle tensioni conflittuali sono state consapevolmente autoinflitte; spostandosi a sud nella capitale, Chris ha ottenuto un lavoro presso l’NME, scrivendo sotto lo pseudonimo di X. Moore. Dopo aver pubblicato il loro primo singolo “Lev Bronstein/The Peasant Army” tramite l’etichetta CNT di Langford, il trio ha poi firmato per la London Records, una parte dell’establishment che stavano simultaneamente giurando di abbattere. Il cantante ha giustificato la decisione con: ‘Ho sempre odiato le band ribelli che vogliono rimanere nell’underground… Sporcati le mani ed entra nelle classifiche’. Il talento era quello di vincere sulle grida di ipocrisia, ma i successi sono rimasti frustrantemente sfuggenti. Pubblicato al culmine dello sciopero dei minatori alla fine del 1984, l’inno soul, “Keep On Keeping On”, è stato tanto buono quanto discreto in termini di successo commerciale, fermandosi appena fuori dalla Top 30. Frustrati dall’apatia dei vertici della label, i nostri acquistarono il ‘master’ di “Kick Over The Statues” e poi lo ha rilasciato in modo indipendente. Con quella relazione ora gelida come un inverno siberiano, il debutto dei nostri, “Neither Washington nor Moscow” è stata una prova infuocata, tuttavia, di ciò di cui erano capaci. Questa sarebbe stata l’unica possibilità approfondita che il pubblico in ascolto avrebbe avuto di ascoltare se le loro alte ambizioni fossero state soddisfatte e per la loro pazienza sarebbero stati enormemente ricompensati. Dalle prime note burbere, ma piene di sentimento dell’apertura “The Power Is Yours”, il percorso sul filo del rasoio necessariamente delicato di educare e intrattenere è stato consegnato con passione e sincerità. Se i messaggi fossero espliciti e volutamente mai lontani dalla superficie su brani intitolati “Go Get Organized!”, “It Can Be Done” e “(Burn It Up) Bring It Down”, sono stati abilmente avvolti da musica esuberante progettata per coinvolgere il pubblico invece di respingerlo. Uno dei brani più toccanti rimane “Hold On”, scritto come un’esortazione ai minatori in sciopero e alle comunità della classe operaia che in seguito sarebbero state devastate dal governo Thatcher. In seguito, in un’atmosfera di aspre recriminazioni e sconfitte, continuarono fino alla fine del 1986 ma, piuttosto che separarsi, sembravano invece dissolversi, con Dean che si ritirava completamente dalla musica, un addio totale che mantiene fino ad oggi. Questa mastodontica ristampa di quattro CD mette la parola ‘fine’ in modo completo, insieme all’album contenente risme di lavori dal vivo, sessioni per il leggendario John Peel, remix e demo. Racconta una storia di buone intenzioni e dilemmi etici, di come una band abbia usato soul, punk, blues e jazz per drizzare le orecchie delle persone nel tentativo, condannato, di cambiare un sistema truccato contro di loro fin dall’inizio. Il fatto che queste canzoni siano altrettanto rilevanti quarant’anni dopo dice tanto di noi, quanto loro!!!

Scasso  08/07/2022


Liam Gallagher - C'mon You Know - Warner Music Rec. - LP/CD

Una notizia è certa, Liam Gallagher con il passare degli anni si è decisamente addolcito. Il documentario del 2019 "As It Was" aveva rivelato un'immagine più consapevole e affabile del più giovane dei fratelli Gallagher, pur conservando alcuni degli aspetti truculenti che da sempre ne hanno contraddistinto il carattere a dir poco peculiare. Peccato che nel suo terzo album da solista, intitolato "C'mon You Know", anche quelle flebili tracce residue del diavolaccio, che si è sempre aggirato nei meandri del buon Liam, si siano praticamente dissolte. La sagacia e la perfetta intuizione che l'artista di Manchester ha costantemente ricercato nel volersi affidare a coautori e produttori che ne rispecchiassero l'indole è una situazione che ha consentito di proporre materiale congruo al proprio stile artistico. È probabile, però, che gli eccellenti Greg Kurstin e Andrew Wyatt siano stati, in questo caso, incaricati di creare un qualcosa che suonasse per così dire classico, probabilmente giungendo anche all'eccesso. Intendiamoci, ascoltare un disco di Liam Gallagher oggigiorno è con ogni probabilità più interessante che imbattersi nei finti sperimentalismi dei progetti fatti quasi per inerzia dal fratellone Noel. Le epiche scorribande britpop di "Everything's Electric", pezzo che potrebbe essere benissimo una outtake proveniente dai primi due album degli Oasis, le interessanti variabili (a tratti soul) contenute nella title track, le pregevoli incursioni classicheggianti che s'insinuano nel britpop di "Better Days" o la miscela ska/post-punk di "I'm Free" sono passaggi degni di nota inseriti in un album che nel complesso appare talvolta un po' troppo di maniera. Il maldestro utilizzo delle amate reminiscenze beatlesiane di "Oh Sweet Children" o le divagazioni ballad-pop di "Too Good For Giving Up" appaiono degli aurei episodi (non gli unici in scaletta) che si svelano alquanto interlocutori. Barlumi di costrutto filtrano dal pop luppolato à-la Stone Roses di "Diamond In The Dark" e dalle melodie cinematiche di "Moscow Rules" (nessun riferimento alle complicate vicende di politica contemporanea). Nel complesso i brani che Liam Gallagher presenta in "C'mon You Know" sono perfettamente adeguati per performance live che raduneranno osannanti fan degli Oasis nei prossimi set estivi, ma la speranza è che quel ragazzaccio che solo qualche giorno fa, durante un acceso dibattito con l'ex calciatore del Liverpool James Carragher, ha avuto il coraggio di oltraggiare, a suo modo, i Fab4 in un paragone con gli Oasis possa trasferire la sua diabolica sfrontatezza su un progetto artistico altrettanto ficcante.

Scasso  07/07/2022


The Spitfire - Play for Today - AcidJazz Rec. - LP/CD

Dopo quattro album, tra cui due uscite al numero uno nel Regno Unito National Vinyl e Indie Chart, centinaia di concerti nel Regno Unito e in Europa per una base di fan fedeli e sfegatati, gli Spitfires prendono il loro ultimo volo con un addio. Per la loro trionfale uscita finale, la band intreccia influenze della New Wave, 2 Tone e Britpop, con hook elettronici e grandi ritornelli. 'Play For Today', porta l'ascoltatore direttamente nel cuore della periferia britannica, raffigurando le vite e le storie di casalinghe annoiate, pub locali di cricca e uomini d'affari pieni di cocaina. Con ampi tratti di luce/ombra, umorismo e sarcasmo, è un "Parklife" per la Gen Z... Prodotto da Simon Dine (Dexys, Paul Weller, The Waterboys), la band continua a impegnarsi, musicalmente e sonoramente. Il gruppo con sede a Watford offre nuove trame insieme al loro caratteristico pop nous e alla cruda passione, il tutto guidato dall'astuto commento sociale del frontman e paroliere Billy Sullivan. Il singolo Advance "Save Me" dà il tono a "Play For Today", esplorando l'evasione in una versione distorta e conservatrice della periferia, mentre allude all'elemento più elettronico che percorre l'album. Il culmine di una carriera fino ad oggi, "Play For Today" vede gli Spitfire lasciare il segno definitivo, qui e ora, lasciando il posto a un nuovo inizio.

Scasso  06/07/2022


Black Pumas - Black Pumas - ATO Rec. - LP/CD

Produttore, multistrumentista, compositore, già membro del gruppo vincitore di un Grammy Award (i Grupo Fantasma: una formazione di musica latin-funk), collaboratore di Shawn Lee e componente a vario titolo di altre formazioni (Brownout, Spanish Gold, etc.), Adrian Quesada gioca con l’effetto nostalgia per il nuovo progetto a due voci Black Pumas. Ispirato dal suono Motown e dal soul-jazz-hip-hop di Ghostface Killah, il musicista ha messo insieme negli ultimi due anni una giusta dose di idee liriche, nell’attesa di trovare una voce adatta. La scelta è caduta su Eric Burton, un artista di strada segnalato al produttore da un amico, un cantante dotato di un ottimo timbro soul e di personalità, ma soprattutto di quella purezza naif necessaria a svincolarlo dal rischioso e stantio effetto retrò. Il risultato è un mix di soul e r&b dai toni garbati e familiari, lambito da fluidi psichedelici e da accenni roots che assimilano la musica del duo a Curtis Mayfield, Bill Withers e Sam Cooke. I due musicisti di Austin pescano sapientemente nell’immaginario cinematografico della blaxploitation (“Fire”), nell’impetuosa sensualità della black-music (“Know You Better”), restando ancorati alle radici texane (“Black Moon Rising”) e preservando quella flessuosità ritmico/armonico necessaria per poter mettere a segno almeno un paio di potenziali hit single: l’r&b alla Al Green “Colors”, e la ballata in stile Otis Redding “OCT 33”. E’ innegabile che l’effetto deja-vu sia parte fondamentale del soave fascino dei Black Pumas, in converso, lo stesso tiene lontana qualsiasi velleità sperimentale, assecondando con classe e gusto la natura vintage della loro proposta. La flessibilità vocale di Eric Burton, unita a un’architettura sonora essenziale (tempi ritmici asciutti, assetto strumentale quasi acustico, organo e fiati che non invadono mai il campo), garantiscono una soddisfacente versatilità, ferma restando un’uniformità delle intonazioni che non intacca la godibilità dell’insieme. L’album alterna leggerezza (“Old Man” sembra uscire da un disco di George McCrae) e spiritualità (“Sweet Conversations”), lasciando spazio anche a limpide influenze blues (“Touch The Sky”) e ad altre sparute citazioni stilistiche (il white-soul di “Stay Gold”, il leggero tocco jazz/groove di “Confines”), senza mai cedere alla routine. L’esordio dei Black Pumas è una stimolante proposta in chiave soul/r&b revival, un progetto che senza rivoluzionare la scena black, offre un gradevole e credibile patchwork di atmosfere retrò 60's e 70's.

Scasso  18/03/2022


Curtis Harding - If words were flowers - Anti Rec. - LP/CD

Curtis Harding sceglie quasi una dichiarazione poetica come titolo per il suo terzo album "If Words Were Flowers". Parole che vengono da lontano, da quello che diceva sua madre: che è meglio dare dei fiori a coloro che contano nella tua vita mentre sono ancora qui e non dopo che se ne saranno andati. Lui però le indirizza verso l'arte e il suo modo di concepire la musica. Le parole possono essere potenti, piene di orgoglio o semplicemente belle come canta accompagnato da un festoso suono di trombe nella title track. Con queste premesse, sarebbe lecito aspettarsi una particolare cura nel lavoro di scrittura o un forte impegno sociale da parte del songwriter americano nella stesura dei testi del suo terzo album. Tuttavia, "If Words Were Flowers" non si può considerare un concept-album e, malgrado l'anima soul, neanche un "What's Going On" del nuovo millennio. I testi dei brani si adagiano generalmente sui classici temi del mainstream (amore, relazioni, assenza ecc.) senza rimanere particolarmente impressi. Fa eccezione da questo punto di vista "Hopeful", il singolo di lancio dell'album, che ci ricorda quanto sia importante la speranza per affrontare i periodi turbolenti che stiamo vivendo. Nel video del brano, girato in bianco e nero dalla fotografa attivista Lynsey Weatherspoon, Harding sfreccia in una Chevrolet degli anni 60 ad Atlanta, la città in cui il cantante vive. Nello stesso momento un nutrito gruppo di persone sta partecipando a una protesta di Black Lives Matter. Le immagini indugiano spesso in foto e frasi dell'eroe per i diritti civili John Lewis, nato proprio ad Atlanta e morto recentemente. Il mescolarsi dei piani temporali nel video suggerisce che è ancora lunga la strada per gli afro-americani per liberarsi dall'oppressione e dalle ingiustizie. I versi di Harding invitano alla resistenza (No fears just hold on tight/ Cause the darkness will be over by the end of the fight) e soprattutto alla speranza (Most of all be hopeful). Se davvero le parole di questa canzone fossero fiori, risulta veramente pregiato il vaso in cui li ripone. Harding infatti rivela la sua capacità di mescolare generi e stili sovrapponendoli fra loro in un'unica trama originale. "Hopeful" è introdotta da un coro gospel che ne ripete il titolo trionfalmente. La ritmica del brano, inizialmente contemporanea, scivola verso sonorità jazz-fusion anni 70 per poi concludersi con una sezione di archi in stile cinematografico. Ancora più eclettico è il tessuto armonico della successiva "Can't Hide It", nella quale il cantante di Atlanta intreccia su una base funk alla Motown elementi eterogenei che rimandano all'hip-hop o ancora una volta alla fusion. Degno di nota è l'assolo lisergico di chitarra nella parte finale del brano che, seppur ispirato al periodo d'oro dela psichedelia, non suona vintage grazie allo spirito spensierato del brano e all'ottimo riarrangiamento in chiave moderna. Harding ha ribattezzato ironicamente il suo modo di suonare slop'n'soul (riferendosi allo slop, il pastone che viene dato ai maiali) per la sua volontà di accostare delle sonorità apparentemente distanti fra loro e proporle in una forma "commestibile" al grande pubblico. Emblematica è in questo senso la traccia "Explore", in cui innesta parti elettroniche straordinariamente moderne all'interno di una struttura soul più classica, trascinata da una sontuosa linea di basso e da un ipnotico sassofono. Una menzione a parte merita "So Low", in cui la voce di Harding in autotune si inserisce in un'atmosfera eterea, quasi sognante creata da un flauto. È chiaro che per comporre questo tipo di brani deve aver trovato ispirazione anche da artisti a lui più vicini temporalmente come Cee Lo Green (che lo ha anche aiutato concretamente all'inizio della sua carriera) e il Kanye West di "808s & Heartbreak". C'è spazio nell'album anche per una collaborazione con la talentuosa artista indie Sasami che duetta con lui nella dolce "With You", nella quale le voci dei due artisti si fondono in un unico canto. In linea di massima, la seconda parte dell'album è più malinconica e riflessiva. Non sempre Harding riesce a proporre un repertorio all'altezza nei pezzi più lenti, ma è senz'altro molto elegante "Forever More" con le sue atmosfere morbide e soffuse accompagnate da un incantevole sassofono, e risulta ben riuscita anche la conclusiva "I Won't Let You Down", una ballata soul con una melodia molto orecchiabile che richiama in alcuni passaggi lo stile di John Legend: la composizione è arricchita da un bel dialogo fra la sezione di fiati e il piano, la luminosa semplicità del testo, in cui Harding e un coro gospel parlano di amore incondizionato, ci ricorda quanto siano importanti le parole per affrontare con il giusto spirito qualunque cosa ci riservi la vita. Non è facile fare una valutazione complessiva di un album che risulta così eclettico e particolare per concezione. Dopo quasi dieci anni dal suo primo album, Harding affina il suo particolare stile e accompagna l'ascoltatore in un viaggio coinvolgente ed emozionante. Non sappiamo se un giorno si potrà conferire alla sua musica "slop" la dignità di un genere musicale distinto. Quel che è certo è che questo album ne risulta ad oggi il più riuscito esempio.

Scasso  18/02/2022


Miles kane - Change the Show - BMG Rec. - LP/CD

La carriera musicale di Miles Kane procede sempre più spedita. Dopo l'esordio con i Rascals, il fortunato sodalizio con l'Arctic Monkeys Alex Tuner per dar vita a due dischi a firma The Last Shadow Puppets, l'ammissione al circolo ricreativo per popstar in libera uscita dei Jaded Hearts Club Band (con Graham Coxon dei Blur e Matt Bellamy dei Muse) e il riuscito duetto con Lana del Rey in "Dealer", uno dei brani più rappresentativi di "Blue Banisters", lo smilzo cantante (una sorta di Spud di "Trainspotting" che studia da terzo degli Style Council) ormai giunto all'età di 35 anni, vuole aggiungere splendore anche alla ditta personale, quella che porta in calce il suo nome che, dopo tre album, aveva subito qualche accusa di ripetitività nell'ultima uscita "Coup De Grace" del 2018. Allora il nostro, che ritorna nel Regno Unito dopo tre anni passati a Los Angeles, in "Change The Show" (titolo programmatico) prova il colpo a sorpresa, la mossa inattesa che spariglia le carte e cambia registro. Stempera le tentazioni britpop delle uscite precedenti e si affida al duo di produttori Oscar Robertson e Dave Bardon dei Sunglasses for Jaws portandoci a ritroso nel tempo, confezionando le sue nuove canzoni dentro sonorità calde e avvolgenti, cariche di fiati e cori, ispirate al Motown Sound, al Northen Soul e alle atmosfere effervescenti del glam-rock. Da amante dichiarato del Modfather Paul Weller, dei suoni dei Kinks, dei Beatles e delle orchestrazioni retrò presenti anche nelle opere dei Last Shadow Puppets, potrebbe sembrare un passo abbastanza prevedibile ma comunque riesce a dare un'ulteriore spinta ai brani di Kane che in alcuni passaggi centrano davvero l'obiettivo. Funzionano molto bene il duetto con la cantante Corinne Bailey Rae nella rassicurante "Nothing's Ever Gonna Be Good Enough": spumeggiante e diretta, sembra uscita da un disco di Ike & Tina Tuner; il soul di "Adios Ta ra Tara" con il suo morbido basso che lavora sottopelle tra urletti soffocati e aperture rigeneranti o la trascinante "Don't Let It Get You Down" tra spoken-word introduttivi della drag queen Lily Savage (alter ego del comico inglese Paul O'Grady) e squarci esotici con vista su Copacabana. Ancora tanti i rimandi, dal dandismo glitterato alla Marc Bolan di "Tears Are Falling", al r&b arrembante di "Tell Me What You're Feeling", agli ammiccamenti lennoniani in "Never Tired Of Dancing" ma, anche se quando i ritmi rallentano le ballad risultano un po' troppo zuccherose, e "Change The Show", la title track, sembra studiata per far cantare la folla di ragazzine salterine che affollano i suoi concerti, alla fine l'album risulta tutto sommato godibile. Ma, si sa, il personaggio è questo, Miles Kane vuole essere una popstar e non fa niente per nasconderlo: possono irritare alcune pose alla Liam Gallagher durante gli show live, ma fanno parte del suo Dna. Essendo nato a Wirral nel Merseyside, a due passi da Liverpool, è prodotto inglese Dop funzionale per il mercato interno, ma valido anche per l'esportazione. Però non si può negare il fatto che sappia scrivere, arrangiare e tirare il pubblico dalla sua parte. E anche se "Change The Show" è un album di maniera e stenta a rivelare un Miles Kane totalmente inedito, comunque raggiunge la sufficienza, anche con i suoi alti e bassi, e fa venir voglia di ballare e unirsi ai cori intrufolandosi (Covid permettendo) in qualcuno dei suoi prossimi live, magari con parrucca e barba finta per non compromettere la fama di fine ascoltatore di micro-wave isolazionista finlandese che ci siamo costruiti con tanta fatica.

Scasso  18/02/2022


VV/AA - Eddie Piller present the british Mod sound of the 60's - Edsel Rec. - 4CD Box Set/4LP Box Set

EDDIE PILLER è uno dei personaggi più influenti nella storia dell'epopea mod. Dalla fanzine "Extraordinary sensations" al ruolo di fondatore della Acid Jazz, a una proficua carriera da DJ, si è dedicato negli ultimi anni a realizzare eccellenti compilation (anche con Martin Freeman) che hanno circoscritto sempre meglio il concetto di "Musica Mod". In questo nuovo quadruplo CD scava nei profondissimi 60's, pescando 100 brani di band che affollavano i locali frequentati dai mod e che proprio dalla scena prendevano spunto per la loro musica. Si spazia da nomi noti come High Numbers, Small Faces, Kinks, Spencer Davis Group, Yardbirds, Action, Creation, Fleurs de Lys, George Fame, PP Arnold con gli Small Faces (scegliendo però sempre brani particolari e mai scontati) a oscuri e perduti protagonisti di brevi apparizioni. In alcuni casi proponendo anche inediti o brani introvabili. In mezzo i primi passi di Rod Stewart, dei John's Children di Marc Bolan, David Bowie, i Bluesology di Elton John, i Rockin Vickers di Lemmy, futuro Motorhead, gli Episode Six di Ian Gillan e Roger Glover futuri Deep Purple, gli Spectres di Francis Rossi (poi negli Status Quo) che riprendono "I' ain't got nothin yet" dei Blues Magoos. E poi i Dog Soul che suonano "Big bird" (ripresa poi dai Jam) con Jim Rodford poi con Argent, Kinks e Zombies o il duetto tra Rod Stewart e PP Arnold. La lista è lunga, la musica sempre godibilissima (prevalentemente circoscritta a un ruvido rhythm and blues, beat, alcune prime influenze psichedeliche), l'ascolto ovviamente travolgente.

Tony Face Baciocchi  18/02/2022